Unione europea al banco di prova
Unione Europea al banco di prova:
immigrazione, spinte nazionaliste e valori (non) condivisi
di Nicola Pasini
In tema di immigrazione Unione Europea in stand by
Europa oggi e domani: sogno o incubo? Per l’Unione Europea siamo al banco di prova, non solo per le elezioni politiche nazionali che nel 2017 riguardano alcuni Paesi membri (tra gli altri, Olanda, Francia, Germania) e che daranno un orientamento circa il futuro dell’Europa, ma anche in relazione a questioni urgenti che riguardano i flussi migratori da Paesi terzi. Proprio essi rilanciano atteggiamenti e comportamenti collettivi di chiusura nazionalista, all’interno di una cornice in cui sembra siano sfidati i valori condivisi delle democrazie contemporanee.
Le dinamiche dei flussi migratori verso l’Europa nel corso degli ultimi tre-cinque anni hanno messo a dura prova la capacità di risposta dell’Unione Europea e in parte la stabilità dell’Europa stessa. In particolare, sono spesso emerse difficoltà da parte dei diversi paesi europei nel condividere un orizzonte culturale comune e, nello specifico dell’immigrazione, di approntare sistemi di accoglienza e procedure di asilo sulla base di valori condivisi, nonché di mettere in atto meccanismi di burden-sharing volti ad alleviare la pressione sugli stati membri più esposti. Al contrario, a fronte di un timore di flussi incontrollati nel proprio territorio, la scelta di alcuni Stati membri è stata di reintrodurre i controlli alle proprie frontiere interne, arrivando a mettere in discussione il sistema di Schengen, vale a dire uno dei capi saldi del progetto europeo.
Inoltre, accanto alla nuova pressione migratoria (la cui natura è diversa rispetto all’immigrazione studiata nei decenni scorsi), i drammatici atti terroristici perpetrati in alcune città europee nel corso del 2016 (da Parigi a Bruxelles a Nizza) hanno contribuito ad accrescere un sentimento di ansia e preoccupazione collettiva nelle società europee, riproponendo pressanti questioni circa l’integrazione delle minoranze, in particolare le popolazioni di fede islamica. In un contesto di preoccupazione crescente e incertezza da parte dei governi nazionali e delle istituzioni europee sulla risposta da approntare, in numerosi Paesi europei si è assistito al rafforzamento di un sentimento collettivo contro l’Europa che si è poi manifestato anche nel consenso nei confronti dei partititi euro-scettici sia su scala nazionale sia su scala comunitaria. Qui basti ricordare il recente eclatante caso del referendum inglese sulla Brexit, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea: esso costituisce un esempio della capacità delle forze politiche contro l’Unione Europea di giocare con successo anche la issue dell’immigrazione, legando a doppio filo una piattaforma euroscettica a posizioni fortemente restrittive riguardo all’immigrazione.
L’immigrazione può allora essere concepita come una tra le principali ‘variabili indipendenti’ relativamente alle difficoltà dell’Unione Europea stessa di vedersi come un sistema integrato dal punto di vista dei valori e delle politiche pubbliche attuate. In effetti, intorno alla questione migratoria la domanda, tanto semplice quanto complessa che ci poniamo è: che cos’è oggi l’Unione Europea e quali sono gli anelli mancanti che impediscono di interpretarla come un vero proprio sistema politico, sociale, economico e culturale?
È, quindi, opportuno partire dalla situazione in cui versa oggi l’Unione Europea, per riflettere sulle differenze socio-culturali esistenti dentro l’Europa e fra questa e il resto del mondo, cercando di comprendere sia le radici storiche alla base del concetto di Europa sia, soprattutto in ordine al fenomeno migratorio, il grado di fiducia e di capitale sociale esistente tra i cittadini europei e le istituzioni comunitarie. Gli studi sulla cultura civica e politica ci permettono altresì di capire meglio i modelli di orientamento valoriale nei confronti sia degli Stati nazionali sia delle istituzioni sovranazionali, spesso in contraddizione tra loro. E, per spiegare il comportamento delle diverse popolazioni europee nei confronti degli immigrati, ci si rifà alle credenze (ciò che i cittadini pensano sia giusto o sbagliato), ai valori che guidano il comportamento (ciò che si pensa essere moralmente buono o cattivo) e alle norme sociali (una sorta di linee guida dal punto di vista dei comportamenti e che vengono sanzionate socialmente).
È dirimente chiedersi se oggi siamo in presenza di dimensioni socio- economiche e socio-politiche che assicurano un rapporto virtuoso tra Stati nazionali e istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea ovvero, come nel caso della Brexit, ci troviamo invece di fronte a un inizio di defezione dei paesi membri la cui conseguenza è il disfacimento dell’Unione Europea stessa. In tal senso, per meglio analizzare i fenomeni migratori, quali fratture socio-politiche stanno assumendo rilievo come conseguenza dell’evoluzione delle principali subculture politiche che hanno contraddistinto la recente storia europea, a partire dalla fine della Guerra fredda e dopo il crollo del Muro di Berlino?
Società aperta vs. società chiusa
Se è vero che l’Unione Europea ha subito un progressivo cambiamento, i cui effetti si sono fatti sentire in corrispondenza di radicali mutamenti di quadro, sia sul piano interno (a partire dal Trattato di Maastricht) sia in ambito internazionale (con la fine dell’era bipolare), è anche vero che le principali linee di frattura socio-politica (i cleavages) – secondo il seminale lavoro del 1967 di Seymour M. Lipset e Stein Rokkan (Cleavage Structures, Party Systems and Voter Alignments: An Introduction), i quali hanno caratterizzato lo sviluppo degli ultimi due secoli dei sistemi di partito su scala nazionale e europea (originati dalle fratture centro/periferia, stato/chiesa dal lato della Rivoluzione nazionale e città/campagna, capitale/lavoro dal lato della Rivoluzione industriale) – devono essere necessariamente integrate da una recente frattura che trae origine dalla dicotomia tra società aperte e società chiuse. Tale frattura è l’esito di questioni tuttora irrisolte e che hanno negli effetti della globalizzazione (nel senso dell’interdipendenza economica, sociale, culturale e politica) il suo epicentro. Di qui l’inadeguatezza da parte delle nostre società di risolvere le principali e inedite questioni dell’agenda politica, economica e sociale su scala europea, sia a livello nazionale sia a livello comunitario. In effetti, la nascita di una frattura post-industriale crea una contraddizione forte tra il mercato unico che per definizione abbatte i confini nazionali e gli Stati nazione (su cui si sono sviluppati la nozione di cittadinanza e di welfare) che invece cercano di rafforzare l’idea di comunità politica nazionale. Chi vince e chi perde dalla globalizzazione? La nascita e il consolidamento non solo elettorale dei partiti di protesta (cosiddetti neo-populisti) sono la dimostrazione della disgregazione delle precedenti fratture a favore di un sentimento che contrappone i ‘perdenti’ della globalizzazione e della mancata integrazione europea (sia dei comunitari sia dei migranti da Paesi terzi) a coloro che propendono per una cittadinanza e una cultura cosmopolita. Infatti, alla base di tale frattura, si rafforza il pregiudizio anti-immigratorio e xenofobico accompagnato da valori nazionalisti e religiosi contrari all’idea di una società aperta e multietnica.
A tal fine, seguendo la classificazione intorno alle differenze culturali su scala mondiale di Ronald Inglehart e Christian Welzel, relativamente alla panoramica valoriale europea è importante riflettere sui alcuni concetti di fondo e sulle loro conseguenze nei confronti dell’Europa. Tenendo presente il rapporto tra cittadini/Stati Nazionali/Unione Europea, vi sono elementi culturali che riguardano: – l’orgoglio subnazionale, nazionale, sovranazionale che si riflette sui processi di costruzione dell’identità collettiva intesa come senso di appartenenza (valori micro-territoriali vs. valori nazionalisti vs. valori cosmopoliti); – la fiducia o sfiducia nei confronti delle istituzioni (locali, nazionali, europee); – la xenofobia contrapposta alla tolleranza relativamente alle credenze culturali (e religiose) e alle persone diverse dal punto di vista della provenienza geografica. Di qui, ancora, prendono piede nuove fratture di natura religiosa ed etnica, le quali innescano non solo cambiamenti culturali delle rappresentanze socio-politiche, ma anche azioni concrete di sfida alle élites (politiche, economico-finanziarie, burocratiche). Proprio da ciò ha origine l’orientamento (oggi, più negativo che positivo) da parte dei cittadini comunitari nei confronti delle istituzioni europee. Un disorientamento collettivo – una sorta di frustrazione – sta producendo nuovi movimenti sociali contro l’Unione Europea e in particolare contro il complesso fenomeno dell’immigrazione.
Le difficoltà della politica
Cambiando i valori di riferimento, mutano necessariamente anche i comportamenti elettorali. Programmi, condizioni politiche e strutturali del contesto, caratteristiche dei singoli partiti diventano quindi variabili fondamentali per esercitare la scelta, condizionata tra l’altro da un elevato grado di incertezza e da una decrescente fidelizzazione nei confronti del partito o dello schieramento preferito (venendo meno il cosiddetto voto di appartenenza o di fedeltà). Nuove issues entrano prioritariamente nei programmi elettorali e nell’agenda politica in riferimento al mutamento di valori di cui sopra: immigrazione, economia, stili di vita, differenze di genere ecc. Di qui, l’ulteriore incremento di complessità dello spazio politico, secondo una struttura nella quale alla pluridimensionalità ereditata dal passato si aggiunge la ridefinizione delle principali dimensioni del sistema partitico alla luce delle trasformazioni sociali intervenute. Emerge così una dimensione, di natura extra-economica, correlata a fattori di ordine culturale e valoriale inerenti le concezioni del bene e gli stili di vita individuali e collettivi. In tal senso, cruciali, ai fini dell’auto-collocazione politica degli individui, risulterebbero non tanto le tradizionali divisioni di classe (nonostante la crisi economica europea sembrerebbe richiamarne l’attualità, di fatto il disagio sociale oggi è diffuso in modo trasversale e non riconducibile nelle vecchie categorie basate sulla dicotomia capitale/lavoro), quanto il livello di istruzione, il genere, il ruolo professionale e la sua eventuale caratterizzazione su scala internazionale. Dimensioni in grado di produrre nuovi legami sociali, di stampo interclassista, capaci di riconnettere segmenti diversi della vita quotidiana, generando nel contempo orientamenti e identità del tutto estranei ai tradizionali legami di identificazione partitica.
In termini di consenso politico e sociale, in Europa, a fronte a tassi di crescita economica assai inferiori (se non negativi) rispetto al passato, vengono meno i margini per distribuire il surplus di ricchezza generata, tant’è che, a seguito della diminuzione dei “benefici” da distribuire alla collettività, ampie fasce di cittadini-elettori, come abbiamo descritto sopra, cominciano a far sentire la loro voice. Tale protesta riguarda sia le politiche selettive che implicano anche la mancata fruizione di determinati servizi di base, originariamente previsti dai diritti universali di cittadinanza, attraverso una definizione restrittiva del diritto alla prestazione, sia il peggioramento dei servizi stessi in termini di qualità. Messi di fronte a una situazione odierna oggettivamente difficile, con sistemi sociali strutturalmente impreparati al fenomeno per certi versi devastante della globalizzazione, gli attuali governi dei paesi europei su scala nazionale, sub-nazionale e sovranazionale (comunitaria) ‑ siano essi conservatori o progressisti o appartenenti ad altre tradizioni politiche – con grandi difficoltà stanno cercando di rimodellare le istituzioni preposte alle scelte pubbliche. Inoltre, i meccanismi redistributivi alla base dei sistemi di welfare e della cittadinanza sociale hanno sempre fatto riferimento all’esistenza di una dimensione territoriale unificata per l’appunto nazionale (lo Stato), in contrapposizione a una più complessa che ha dato vita a un welfare articolato su scala sub-nazionale e sovra o plurinazionale.
Siamo chiaramente di fronte a una vera e propria ridefinizione del conflitto sociale, con una parte della classe media propensa a fare ‘pesare’ le proprie forme di partecipazione politica, e con la maggior parte della classe lavoratrice incline ad essere sempre più conservatrice, non soltanto rispetto alla dimensione economica, ma anche alle questioni relative alla sicurezza personale, all’ordine pubblico e al recupero delle identità primarie di carattere localistico e territoriale, specialmente in contrapposizione alle tendenze della globalizzazione.
Inoltre, coloro che sono rimasti svantaggiati dalla globalizzazione economica trovano rifugio nelle forze politiche che promettono, non solo metaforicamente, la chiusura delle frontiere, l’indipendenza dalle lontane burocrazie europee, il recupero e la difesa delle tradizioni, nonché uno scudo dall’immigrazione vista come minaccia nel mercato del lavoro e nei costumi culturali e religiosi. Nell’atteggiamento anti-globalizzazione, troviamo che le nuove destre presentano una curiosa affinità con la sinistra estrema e il passaggio di voti da un estremo all’altro dello spettro politico (specialmente nei settori dei lavoratori manuali con basse qualifiche) non è un paradosso, anzi è proprio legato alla rete di protezione, economica e culturale che la destra radicale e la sinistra estrema pensano di offrire a certe categorie danneggiate dalla competizione internazionale. Infine, l’estremismo sembra figlio di un’ulteriore radicalizzazione in un continente dove la crisi economica e finanziaria ha portato la tensione al livello di guardia, scatenando uno stato di angoscia in una parte dell’elettorato facilmente preda delle spinte estremiste abili nel proporre soluzioni semplicistiche a problemi assai complessi.
Interpretare i nuovi scenari
La Fondazione Ismu, proprio per riflettere sistematicamente sul rapporto tra flussi migratori (nuovi e vecchi) e crisi dell’Europa, ha dato vita a una Linea Strategica (http://old.ismu.org/linee-strategiche/) che in tali direzioni vuole perseguire le seguenti attività. Innanzitutto, si propone di monitorare, analizzare e riflettere sulle seguenti dimensioni: gli aspetti statistici e demografici connessi ai fenomeni migratori in Europa. In particolare si vogliono monitorare l’evoluzione delle rotte migratorie in e verso l’Europa, la composizione dei flussi, il differente impatto dei flussi sui vari paesi europei; le politiche nazionali ed europee di immigrazione e asilo. Inoltre, si pone attenzione alle dinamiche istituzionali e ai fattori di ordine giuridico, politico e sociale che hanno ostacolato l’elaborazione e l’attuazione di una politica di immigrazione e asilo in sede europea; al ruolo dei contesti politici nazionali, in particolare per ciò che concerne il successo dei movimenti e partiti nazionalisti o neo-populisti, nonché alle modalità con cui tali soggetti inquadrano le questioni migratorie nel discorso politico e l’influenza che essi esercitano sulle politiche nazionali ed europee. Diventa, quindi, centrale il ruolo dell’opinione pubblica e delle diverse agenzie che modellano le opinioni e le proferenze dei cittadini. Di conseguenza, si analizzano le dinamiche che contribuiscono alla definizione degli incentivi per i partiti di governo ad assumere determinate policies nelle specifiche congiunture elettorali (scadenze elettorali nel corso del 2017-18); il dibattito concernente la “crisi” dell’Unione europea in quanto sistema di polity, utilizzando la lente delle migrazioni per affrontare questioni quali l’evoluzione dell’assetto politico-istituzionale dell’Unione europea, l’(in)esistenza di un comune demos europeo e il ruolo dell’Unione europea sulla scena internazionale.
Nel corso dei prossimi mesi, sarà avviata un’attività di disseminazione dei risultati del monitoraggio e dell’analisi, attraverso l’organizzazione di seminari e workshop finalizzati alla discussione, al confronto e alla diffusione dei risultati delle attività di cui sopra, anche attraverso il coinvolgimento di studiosi esterni, esperti, cultori della materia, giovani ricercatori, testimoni privilegiati, policy maker ecc.