La convenzione sui Diritti dei Migranti: ancora più attuale di 26 anni fa
La Giornata Internazionale dei Migranti, istituita dall’ONU nel 2000 e celebrata il 18 dicembre di ogni anno, cade oggi in una delle fasi più critiche delle migrazioni dell’epoca contemporanea, specie per quel che riguarda l’Italia e l’Europa.
Le inadeguatezze del sistema internazionale di protezione e l’incapacità dell’Europa di gestire collegialmente quella che continuiamo a definire, sempre più impropriamente, come l’“emergenza profughi”, sono ormai apparse palesi anche ai non addetti ai lavori; una circostanza che, tra l’altro, ha influito negativamente sugli orientamenti della società europea e sulla sua disponibilità ad accogliere i nuovi arrivati, siano essi “veri” o “falsi” rifugiati (laddove proprio questa distinzione ci appare sempre più porosa e vacillante).
Ma oltre alla necessità di ripensare il sistema di governo e di governance dei flussi migratori, uno dei lasciti più importanti – e ampiamente sottovalutati – di questa “emergenza” sta nell’avere definitivamente sconfessato l’illusione di poter “scegliersi” gli immigrati, secondo i criteri della convenienza economica.
La fenomenologia migratoria reale, “naturalmente” inscritta nei processi economici, politici e sociali di una società globale – come quella attuale è e pretende di essere – finisce infatti col ridurre a mere chimere le lusinghe dell’immigration choisie, alimentate da retoriche come quella dell’attrazione dei talenti e, in forma ancor più pervasiva, della programmazione degli ingressi in base ai fabbisogni del mercato del lavoro. Come si rileva nell’ultimo Rapporto ISMU, presentato lo scorso 1° dicembre, la gran parte degli immigrati, in pressoché tutti i paesi europei – perfino in quelli comunemente percepiti come i più rigorosi e “capaci” di governare l’immigrazione – si realizza in maniera autonoma rispetto a quanto previsto dalle politiche per i migranti economici. L’offerta di lavoro immigrato è alimentata, in larga misura, da quanti approdano nei nostri paesi attraverso la side door dell’immigrazione familiare e umanitaria, quando non attraverso la back door dell’immigrazione irregolare. E nonostante i singoli paesi abbiano nel tempo elaborato specifici meccanismi di ammissione dei cittadini di paesi terzi – tutti basati, al di là della varietà delle soluzioni procedurali, sul principio secondo il quale ogni ingresso deve avvenire solo in presenza di uno specifico posto di lavoro –, nei fatti perfino la maggior parte degli ingressi dei c.d. migranti economici avvengono prima di avere trovato un lavoro.
Per tutte queste ragioni, l’integrazione degli immigrati nel mercato occupazionale resta un traguardo per nulla scontato, ma che sollecita l’impegno della società italiana ed europea. E, soprattutto, questo impegno deve essere diretto a far sì che tale integrazione non si realizzi – come purtroppo spesso avviene – esclusivamente grazie alla grande adattabilità dei lavoratori stranieri, ovvero alla loro disponibilità ad occupare i “lavori da immigrati”, quando non addirittura a rinunciare a quei diritti che definiscono la nostra civiltà del lavoro, e che l’Europa dovrebbe semmai proporsi di esportare nel mondo intero.
Ecco perché il richiamo alla Convenzione ONU per la tutela dei diritti dei migranti e delle loro famiglie, adottata proprio il 18 dicembre e che la giornata del migrante ci invita a celebrare, suona quanto mai d’attualità. Forse, per certi versi, oggi più ancora che nel 1990, quando venne approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Perché le trasformazioni dell’economia e del mercato del lavoro occorse in questo quarto di secolo, insieme all’impatto devastante della crisi, hanno reso più ricorrente il rischio di fare del lavoro immigrato un involontario strumento di gravi arretramenti sul fronte dei diritti dei lavoratori, migranti e non solo. E perché l’emergenza occupazionale – che coinvolge molti lavoratori, ma in misura particolarmente grave i lavoratori migranti e, tra questi ultimi, le componenti più vulnerabili – rischia di premiare la logica di un lavoro purchessia, che è spesso l’anticamera di una condizione di svantaggio strutturale che mina le basi tanto della coesione sociale quanto della stessa competitività delle società europee.
Il forte afflusso di richiedenti asilo, che giungono in Italia e in Europa al di fuori di qualunque programmazione, rappresenta allora un ottimo banco di prova per verificare la capacità di governance dei processi d’inserimento occupazionale, e la preparazione non solo delle autorità di governo, ma dello stesso sistema delle imprese e degli altri attori della società civile.
La partecipazione al mercato del lavoro è, secondo tutti gli esperti, la modalità più efficace per favorire l’integrazione nella società ospite, rendendo vantaggioso l’impatto di lungo termine dei flussi di rifugiati. Tuttavia, numerosi fattori concorrono a ostacolare l’inserimento occupazionale: le scarse competenze linguistiche, la mancanza di qualifiche spendibili sul mercato del lavoro, la lunga durata delle procedure per il loro riconoscimento, ma anche le difficoltà sul fronte dell’integrazione abitativa e i problemi di salute che spesso li accompagnano (che possono compromettere non solo l’inserimento lavorativo, ma anche l’apprendimento della lingua e l’intero rapporto con le istituzioni). L’esperienza passata ci dice che ci vogliono addirittura 5-6 anni per integrare nel mercato del lavoro almeno la metà dei rifugiati, perfino nei paesi in cui i servizi per l’impiego funzionano meglio. E tutto ciò porta a ritenere che, una volta completato l’esame delle istanze di protezione, si dovrà registrare una crescita nei livelli di disoccupazione nei paesi maggiormente interessati dai flussi più recenti, Italia evidentemente inclusa. Tutto ciò non deve però scoraggiare le iniziative a loro sostegno: sebbene, nella percezione comune, profughi e rifugiati costituiscano un costo per le società d’accoglienza, è proprio canalizzando risorse in interventi che ne favoriscano l’occupabilità – alfabetizzazione, assessment delle competenze, formazione professionale, ma anche recupero delle condizioni di salute fisica e psichica – che è possibile trasformare questo costo in investimento.
È con questa sfida che siamo chiamati oggi a misurarci. Partendo proprio da quanto affermato dal testo della convenzione, che ci rammenta come “limitarsi” a non discriminare i migranti non basta. Ma come occorra vedere in essi, e in ciascun altro lavoratore, non solo braccia ma persone, degne di un lavoro che deve essere conciliabile con tutte le altre dimensioni dell’esistenza, e che garantisca una condizione di uomini e donne liberi.
(Laura Zanfrini, Responsabile Settore Economia e Lavoro della Fondazione ISMU)