19 novembre 2017: Prima giornata mondiale dei poveri…e degli immigrati poveri
La Giornata mondiale dei poveri, istituita da Papa Francesco a partire da quest’anno, costituisce l’ennesima occasione per riflettere su un fenomeno atavico, ma che ci si presenta oggi in forme inedite e con cause che rimandano sia ai processi di distribuzione della ricchezza – dentro uno scenario internazionale caratterizzato dall’acuirsi della distanza tra i ricchi, sempre più ricchi, e i poveri, sempre più numerosi –, sia quelli di creazione della ricchezza, compromessa dall’aumento delle persone escluse tanto dai processi produttivi quanto da quelli di consumo.
Se un “merito” può essere tributato alla crisi ancora non risolta, esso consta nell’aver diffuso, oltre la cerchia degli studiosi ed esperti, la consapevolezza di fenomeni da tempo oggetto di analisi da parte delle scienze sociali, e la cui cifra è rappresentata da categorie come quella dell’esclusione (R. Castel), della produzione di “scarti umani” (Z. Bauman), o dell’espulsione, per riprendere il titolo di un saggio di S. Sassen, nel quale la sociologa denuncia il consolidamento di logiche predatorie che spingono quote crescenti di persone e lavoratori al di là dei confini del “sistema”, rendendoli invisibili e ridondanti.
L’immigrazione, “specchio” delle società d’origine e di destinazione, ci offre come sempre una prospettiva “privilegiata” per leggere questi fenomeni, obbligandoci a prendere consapevolezza di quanto la realtà sia distante da quegli ideali di uguaglianza “universale” che hanno irrorato la nascita e il consolidamento delle nostre democrazie. Da un lato, infatti, il numero crescente di persone che guardano alla migrazione come l’unica strategia di emancipazione possibile, è testimonianza di quelle pressioni espulsive cui concorrono l’irresponsabilità e la disonestà delle classi dirigenti del terzo mondo, le condotte disinvolte delle multinazionali e degli investitori stranieri, il crimine organizzato per il quale la tratta di esseri umani costituisce una delle filiere più profittevoli, le politiche di riaggiustamento strutturale imposte dal fondo monetario internazionale, la superficialità dei nostri comportamenti di risparmio e di consumo, le catastrofi naturali determinate da regimi di accumulazione non sostenibili. Dall’altro lato, i regimi migratori e i modelli di inserimento, privilegiando l’inclusione degli immigrati nei lavori a bassa retribuzione e scarso prestigio sociale, producono ben noti fenomeni di etnicizzazione e discriminazione sul mercato del lavoro che, a loro volta, generano comunità immigrate strutturalmente svantaggiate. Questo, in particolare, è l’epilogo di una vicenda europea che, fin dal dopoguerra, attraverso l’istituzionalizzazione del modello del “lavoratore ospite”, ha determinato la sovra-rappresentazione degli immigrati nei segmenti più bassi della gerarchia occupazionale e della stratificazione sociale. E questo è l’epilogo della vicenda italiana dove, come tante volte abbiamo sottolineato nel nostro Rapporto annuale (cfr. in particolare il cap. 2.1 dei Rapporti annuali ISMU – vedi elenco), il modello di integrazione economica addirittura accentua i caratteri di criticità e di debolezza dell’approccio europeo.
Al pari di quanto avviene in molti Paesi europei, anche in Italia si registrano, infatti, preoccupanti segnali di un’etnostratificazione della società, che vede gli immigrati, e spesso anche i loro figli, sovra-rappresentati in tutte le categorie di soggetti svantaggiati. Non soltanto i lavoratori stranieri sono concentrati nei profili occupazionali meno remunerati – con redditi che in molti casi rientrano nella soglia dell’esenzione fiscale – e con il più basso gradiente sociale; essi soffrono anche di un differenziale negativo nei livelli di disoccupazione che tende a crescere nel tempo e, se giovani, hanno una probabilità ancor più elevata dei coetanei italiani di trovarsi nella condizione di Neet. Oltre a essere sovra-rappresentate tra i nuclei in condizione di povertà relativa e tra quelli che possono contare su un solo reddito da lavoro, le famiglie immigrate sono maggiormente esposte al rischio di povertà assoluta e hanno conosciuto un forte arretramento del loro livello di reddito in seguito alla recessione, tanto da ritrovarsi sovra-rappresentate tra i percettori di interventi di sostegno (per esempio il c.d. “bonus 80 euro”). Tale condizione si riverbera sul destino dei figli, fino a costituire una pesante ipoteca sulle loro carriere scolastiche e professionali: vittime di un sistematico svantaggio a scuola (indicato da fenomeni che riguardano sia i rendimenti scolastici e i livelli di apprendimento, sia la durata e la tipologia del corso di studi intrapreso), i figli degli immigrati hanno mediamente molte meno chance dei coetanei di approdare all’università, trovare un impiego (non atipico), ottenere un lavoro di buona qualità, accedere a una professione qualificata e, per converso, maggiori probabilità di abbandonare anzitempo la scuola, svolgere un lavoro per il quale sono sovra-qualificati, perdere il lavoro o restare inattivi (specie se femmine).
L’esperienza di altri Paesi insegna come questo tipo di fenomeni alimenti l’avversione dell’opinione pubblica nei confronti della nuova immigrazione, insieme all’inquietudine per la “diversità” che l’immigrazione porta con sé, tanto più avvertita quando essa si associa a condizioni di povertà ed emarginazione sociale. Gli immigrati, principali vittime dell’insicurezza e della precarietà, finiscono così con l’essere accusati di costituire un competitore sleale sul mercato del lavoro, un fardello per i sistemi di welfare, i responsabili dell’insicurezza e della rottura della coesione sociale.
La condizione di svantaggio strutturale che colpisce i soggetti con un background migratorio denuncia il fallimento della promessa di uguaglianza, formale e sostanziale, che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo delle nostre democrazie, sollecitando istituzioni e società civile a mettere in campo interventi di sostegno all’occupabilità e all’inclusione sociale, tanto più nello scenario che si è aperto con la c.d. crisi dei rifugiati che ha dirottato nel nostro paese migliaia di giovani alla ricerca di opportunità di vita e di lavoro.
Resta il fatto che la nozione di discriminazione etnica – ovvero della discriminazione verso gli immigrati – spesso chiamata in causa, può risultare addirittura fuorviante per leggere, e correggere, i fenomeni di cui parliamo. I processi di costruzione sociale dei migranti e del loro ruolo nel mercato del lavoro, insieme alla loro iper-adattabilità dettata dal bisogno estremo di lavorare sono, infatti, straordinariamente coerenti e funzionali rispetto ad alcuni dei risvolti più problematici degli attuali modelli di capitalismo; quelli, in particolare, che hanno condotto a una crescente mercificazione del lavoro e assecondato la logica allocativa del mercato, con la sua insaziabile fame di lavoro docile e a basso costo. Fenomeni che, a loro volta, costituiscono l’anticamera di quelle situazioni di povertà relativa ed estrema che già oggi investono migliaia di famiglie immigrate.
Occorre, però, essere consapevoli di come i rischi di povertà ed esclusione sociale che interessano gli immigrati e le loro famiglie non sono un “problema degli immigrati”, bensì un problema dell’intera società, italiana ed europea. Per rendersene conto basta considerare il quadro demografico del “vecchio” continente e, in particolare, la consistenza quantitativa della popolazione con un background migratorio, che la rende una componente strutturale delle assottigliate fasce d’età più giovani e un fattore cruciale per i processi di turnover della popolazione attiva. Contrastare le pratiche discriminatorie e lo sfruttamento, far crescere la partecipazione ai processi produttivi, ma anche la produttività del lavoro e i livelli retributivi, oltre a costituire gli strumenti più efficaci di prevenzione e lotta della povertà, sono anche obiettivi fondamentali per società in cui è di importanza vitale riuscire a consentire l’espressione del potenziale delle categorie svantaggiate e marginali, migliorare l’allocazione dei capitali umani, ridurre i rischi di dipendenza dal welfare. Altrettanti obiettivi che, come approfondiremo nel Rapporto ISMU 2017, in uscita nei prossimi giorni, ci sollecitano a cambiare decisamente la rotta.
Laura ZANFRINI
Responsabile Settore Economia e Lavoro